Conoscevo Remo sin da quando ero studente e lui giovane professore incaricato. Era l’epoca del ’68. Remo apparteneva a quel giro di giovani studiosi, per lo più normalisti, che si erano formati, direttamente o indirettamente, con un professore che non arrivai mai a conoscere, e il cui fascino aleggiava ancora tra le mura del vecchio Istituto di Filosofia e nei luoghi dintorno, Arturo Massolo, siciliano. Sto parlando di Gargani, Cristofolini, Nicastro, Barale, Cazzaniga e molti altri che non erano più a Pisa, tra cui Sergio Landucci, Alberto Gajano, Furio Cerutti. Era l’epoca di Adriano Prosperi, Gian Biagio Conte, Carlo Ginzburg, Adriano Sofri.
Quella di Massolo per me, giovane studente alle prime armi, impegnato politicamente, ma smarrito su tutto il resto, era una figura mitica al pari di Sebastiano Timpanaro o di Delio Cantimori. Quando arrivai a Pisa i due ordinari erano Barone e Badaloni, ma la figura di Arturo Massolo ancora campeggiava:un grande studioso di Hegel, ma anche, a quanto capivo dai racconti di Remo e degli altri, uomo che amava frequentare gli studenti e gli studiosi più giovani nella vita quotidiana, tra le strade e i caffè della Pisa di allora.
Hegel appunto. È stato il filosofo di Remo, non solo perché lo ha tradotto e ha scritto libri importanti sul suo pensiero, ma anche perché, per come ho visto e vedo la sua ricerca, Hegel è colui che gli ha dato quel respiro vasto con cui trattava temi e argomenti filosofici, che lo ha sempre contraddistinto. Non sarà un caso che i suoi libri su Hegel Remo li abbia riproposti di recente e che il suo ultimo lavoro, appena uscito, tratti di dominio e di subordinazione: un tema che, riflettendo sulla contemporaneità, lo ha assillato negli ultimi anni e che lui affrontava partendo dal punto di vista di La Boétie e della questione della servitù volontaria, ma che si richiama alla dialettica hegeliana del signore e del servo.
Un giorno Gargani mi disse che in fondo Remo era più storico della filosofia di noi due, proprio perché, anche quando partiva da un frammento, trattava ogni argomento e ogni teoria in una chiave storica: tanto la rappresentazione del pensiero quanto l’apparato filologico (di solito enorme), venivano dipanati magistralmente con un metodo che intrecciava di continuo filosofia e storia della filosofia, filologia e storia delle idee.
In “Geometria delle passioni e Destini personali” vi è tutta l’ambivalenza di Remo, in senso filosoficamente produttivo, affascinante e, in modo quasi celato, drammatico, tra la necessità di ciò che qui, semplificando enormemente, chiamo ordine e l’attenzione, la curiosità e forse l’attrazione verso il disordine. In altre parole, il confronto-conflitto mai risolto tra movimenti collettivi e azioni individuali, un confronto-conflitto dove appunto la filosofia si incrocia con la storia della filosofia. Il bisogno di abbracciare e comprendere il tutto e nello stesso tempo riconoscere l’irriducibilità delle parti fra loro è l’irrisolto hegeliano che Remo eleva a teoria e a storiografia insieme.
Il problema di Spinoza, riguardante appunto il rapporto tra geometria e passioni, si traduce in lui nella dialettica di Hegel. È una dialettica che passa tuttavia, come per molti filosofi del Novecento che hanno fatto i conti con Hegel, per il rifiuto della sintesi, ma anche attraverso uno sguardo verso il rapporto tra futuro e storia quale si ritrova in un altro dei suoi autori, Ernst Bloch, e nel suo concetto di Multiversum.
Non si tratta però solo di questo. Remo non spaziava solo tra i diversi saperi, senza perdere la centralità del pensiero filosofico, ma passava anche, per così dire, tra i saperi alti e i saperi bassi, tra la filosofia e il senso comune, nel solco di quella tradizione che da Vico arriva fino a Gramsci. Quello che mi ha sempre colpito di lui è lo straordinario e spesso spiazzante coacervo tra un’erudizione sterminata e una convivialità e una disponibilità nel parlare quotidiano e nelle relazioni con gli altri. Al punto che mi è capitato di chiedermi se talvolta, delicatamente e indirettamente, non volesse quasi farsi perdonare dal suo interlocutore dell’incredibile quantità di cose che sapeva.
In una comunità scientifica e, nella fattispecie, filosofica, i destini personali e quelli culturali si intrecciano inevitabilmente, e così pure la tendenza della ragione a operare geometricamente si incrocia con il movimento delle passioni. Il problema che ha sollevato Remo, quello di un conflitto-confronto tra cose irriducibili eppure simbiotiche, non riguarda solo la filosofia in quanto teoria, ma anche i rapporti personali. Di fronte al dolore di una mancanza, tuttavia, non vi è ragione geometrica che regga. Remo non ha mai abbandonato il logos. Ma oggi, con la sua scomparsa, mi è assai difficile seguire questa sua lezione.
Alfonso Maurizio Iacono